Fast Fashion è un neologismo utilizzato per indicare un settore produttivo della moda capace di immettere una grande quantità di prodotto sul mercato in un lasso di tempo molto breve. Questo tipo di produzione è caratterizzata da un alto tasso di integrazione tra progettazione, produzione e distribuzione che mira a garantire un lead time, lasso di tempo che intercorre tra la prima fase e la vendita, molto breve. Zara, ad esempio mantiene un lead time costante di 2 settimane, H&M di 6.
Tutta la filiera produttiva è ottimizzata per produrre grosse quantità in breve tempo e ad un costo molto basso. La strategia di produzione si basa su prezzo ridotto, quantità, Quick risponse method, ricambio frequente e sullo stimolo costante al consumo.
La produzione fast fashion ha un impatto notevole su ambiente, società e crescita economica.
Ogni anno sono prodotti 80 miliardi di nuovi capi e il fast fashion, nel solo 2019, ha generato un totale di 35,8 miliardi di dollari di ricchezza, nel 2020 le stime prospettano un calo del 12% dovuto alla crisi attuale.
L’impatto socioeconomico però, non rispecchia queste cifre. Ciò accade per via dei processi di delocalizzazione della produzione, per cui le aziende cercano ambienti in cui le legislazioni e le regole sono meno severe in termini di tutela del lavoratore e ambiente. Questi due fenomeni si chiamo social ed environmental dumping, abbassando o non implementando le legislazioni, i PVS diventano attraenti agli occhi delle grande imprese.
Lo stipendio medio di una persona impiegata nella filiera produttiva del fast fashion è costituito dallo 0,6% del prezzo riportato sulla merce, corrispondente a pochi dollari al giorno, cifre non sufficienti a garantire ai lavoratori una vita dignitosa. L’industria, inoltre, sfrutta fasce di popolazione particolarmente vulnerabili, prive di qualsiasi tutela, tanto’è che l’80% della forza lavoro impiegata è costituita da donne in età compresa tra i 18 e i 24 anni.
Secondo le stime ILO sono 170 milioni i bambini sfruttati nelle industrie e la maggior parte è impiegata proprio nel settore tessile. La frattura tra i guadagni esorbitanti delle industrie, i valori esigue degli stipendi e lo sfruttamento delle categorie più vulnerabili si interseca con l’assenza di tutele per la salute e le difficoltà della pandemia, cancellando la prospettiva di ricevere lo stipendio.
Le sostanze impiegate nella produzione sono spesso tossiche e gestite in paesi con regolamentazioni molto lasche, cosa che lascia i lavoratori completamente esposti ad incidenti e sviluppo di malattie connesse.
L’impatto di questa industria sull’ambiente è enorme. L’industria tessile è responsabile per il 10% delle emissioni human related, nonché dell’avvelenamento dei bacini idrici e dell’aumento di rifiuti. Secondo le stime dell UN FRAMEWORK CONVENTION ON CLIMATE CHANGE, queste emissioni cresceranno del 60% entro il 2030.
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Il settore tessile è il secondo per consumo di acqua. Per produrre una maglietta di cotone sono necessari circa 2650 litri di acqua, una quantità che potrebbe consentire ad un individuo di bere 8 bicchieri di acqua al giorno per circa 3 anni e mezzo, il tutto considerando che circa 1,8 miliardi di persone vivono in zone in cui l’accesso all’acqua non è assicurato. Il lago di Aral, impiegato come fonte per alimentare la coltivazione di cotone dopo solo 50 anni è ridotto ad un deserto. Al consumo di acqua, va sommato l’utilizzo di pesticidi che rilasciati sui terreni raggiungono anche le falde acquifere.

L’acqua, viene ampiamente usata anche nella produzioni di capi in pelle, essa deve essere usata per la produzione alimentare destinata agli animali allevati e per la lavorazione e la tintura della pelle stessa, due processi in cui vengono impiegate sostanze chimiche come formaldeide, derivati del catrame e del carbone.
Le fibre sintetiche, non sono da meno. Il poliestere è un materiale derivato dal petrolio, non biodegradabile e non riciclabile per la cui produzione viene generato un volume di emissioni tra le 2 e le 3 volte superiore rispetto la produzione del cotone. Come il Nylon e le stoffe acriliche, il poliestere impiega migliaia di anni a degradarsi rilasciando sostante tossiche nell’ambiente. Gli stessi lavaggi di queste fibre producono circa 500.000 tonnellate di microplastiche che raggiungono gli oceani. La tossicità dei materiali è talmente alta da produrre quella che viene definita “allergia da consumo” ovvero un effetto diretto sulla salute di chi indossa abiti in poliestere.
Il fast fashion si basa sulla costanza del consumo, ovvero sul ricambio continuo, cosa che spinge i consumatori a gettare fino all’85% della produzione entro un anno. Questo produce un accumulo di materiale esorbitante che arriva ad occupare il 5% delle discariche globali o necessita di essere bruciato, con annessa produzione di emissioni.
L’efficenza di questo settore sta nel produrre costantemente prodotti che vengono acquistati con elevata frequenza, cestinati e ricomprati, fornendo al consumatore un’esperienza di intrattenimento per cui lo shopping viene percepito come piacevole.
L’impatto sociale, ambientale ed economico di quest’industria è talmente alto da aver spinto l’ONU a creare la Alliance for sustainable fashion, che ha i compito di promuove lo slow fashion, l’acquisto dell’usato e di materiali più sostenibili come lyocell, lino, canapa e cotone organico, realizzati in ambienti in cui il lavoratore è tutelato e non sfruttato.