Che relazione c’è tra razzismo, climate violence e ambientalismo? Il rapporto tra queste realtà è estremamente stretto poiché le prime due mostrano la fallacia del dibattito ambientalista e tracciano la strada per renderlo davvero sostenibile.
La sostenibilità è un sistema complesso, composto da tre pilastri essenziali ovvero tutela ambientale, sviluppo e tutela sociale e sviluppo economico.
Quindi, perché un prodotto, un’attività o un progetto siano sostenibili è necessario che contribuiscano in maniera equa a questi tre elementi. L’attivismo ambientalista, o almeno la sua rappresentazione mainstream, in questo momento sta tradendo il proposito. I social media, soprattutto quando si tratta di promozione di lifestyle, tendono ad essere di una drammatica sfumatura di bianco, filtrando all’ingresso una qualsiasi rappresentazione della comunità nera, indigena e di colore.
Ciò che è visibile e condivisibile, però non rappresenta in maniera adeguata la realtà in cui esistono tanti, tantissimi, influencer e attivisti BIPOC che si occupano di ambiente e sostenibilità, spesso in maniera persino più completa proprio perché consapevoli dei vari gradi oppressione che la nostra società impone ad alcuni gruppi di persone.
Il razzismo è una delle più efferate forme di oppressione sistemica che discrimina sulla base del colore della pelle stabilendo un ordine di superiorità ed inferiorità. Il razzismo può presentarsi in diverse forme e con diversi ordini di evidenza. Dall’indifferenza alle battute razziste, fino alla violenza e ai crimini di odio, il razzismo permea le nostre società autoalimentandosi e riproducendosi in seno a sé stesso. Un leviatano ripropone sé stesso in un caleidoscopio di forme e dimensioni, difficile da abbattere, ma non immortale e certamente non invulnerabile.
Oltre ad essere vittime del razzismo, le comunità BIPOC, spesso sono le prime a risentire dei cambiamenti climatici nonché della climate violence. La violenza climatica nasce dall’intersezione dei cambiamenti climatici con le fragilità sociali. Sono proprio le comunità stigmatizzate, abbandonate a sé stesse, oppresse o dimenticate le prime a sperimentare gli effetti di un clima appesantito dalle nostre emissioni, proprio perché vivono in condizioni precarie, in zone in cui le fragilità sociali della discriminazione razziale si innestano sulla povertà sistemica.
La scarsa rappresentazione, la tendenza dei bianchi di promuovere e seguire solo persone bianche e a dominare il dibattito negano visibilità e riconoscimento agli attivisti BIPOC. La contro argomentazione più diffusa per negare questo problema riguarda il riconoscimento del merito, ovvero la condizione di seguire solo chi ha competenze tali da meritare il seguito a prescindere dal colore della pelle. Scritta in questi termini la questione appare chiaramente non discriminatoria, ma se applicata alla realtà attuale in cui esistono persone discriminate è solamente uno spigolo abilmente smussato dello stesso problema : il razzismo. Negare il gap e quindi annullare la rivendicazione è una fallacia argomentativi molto diffusa nel dibattito sulle oppressioni.
Nella nostra società esistono delle fratture, delle iniquità tali da discriminare un numero esponenziale di persone sulla base del colore della pelle, del sesso, della ricchezza, della provenienza, dell’orientamento sessuale e delle identità di genere. La consapevolezza di questa realtà diseguale deve essere ben salda, soprattutto quando si tratta di sostenibilità poichè essa non si può, per definizione, realizzare senza una lotta chiara e comune contro il razzismo e le discriminazioni. Per realizzare una rivoluzione sostenibile è necessario un impegno sociale e manifesto contro le discriminazioni. Dare spazio ad attivisti BIPOC, donne, appartenenti alla comunità LGBTQ+ACE, proveniente da diversi paesi e specialmente da pesi meno sviluppati o in via di sviluppo è un passo fondamentale per camminare nella giusta direzione. Quel sentiero circondato da una natura florida e rigogliosa in cui l’umanità potrà procede senza minacce e timori occupandosi in maniera adeguata di sé stessa, della propria casa e di tutti gli esseri viventi con cui la condivide.
Per chiudere, vi lascio con il link al profilo di una delle nostre attiviste preferite Xiye Bastida, nata in Messico, appartenente alla comunità indigena Otomi, ora vive a New York dopo che l’esondazione del Lerma River, un fiume le cui acque erano rese altamente tossiche dagli scarichi delle fabbriche tessili nei pressi.