Fake Famous, il documentario diretto da Nick Bilton, è un esperimento sociale atto a mostrare quanto sia facile diventare fake influencer. Obiettivo del documentario, infatti, era quello di trasformare tre persone, Christopher Bailey, Dominque Druckman e Wylie Heiner in famosi influencer, per l’appunto fake famous.
I titoli di testa si aprono su un muro rosa, nello specifico il pink wall di Paul Smith di L.A. un luogo Insta-famous, ovvero famoso su Instagram. Le persone fanno la coda per potersi immortalare sullo sfondo rosa cicca del negozio del noto designer. Un’attrazione da social media che non solo è diventata e rimane virale, ma che spinge migliaia di persone a ricercare qualcosa che hanno già visto nella speranza che anche il loro contenuto venga apprezzato di conseguenza.

La trappola dell’instagrammabile
Il muro rosa altro non è che un luogo altamente instagrammabile, adatto alle classiche fotografie unicamente destinate alla pubblicazione sui social. La trappola dei luoghi instagrammabili è un fenomeno che non riguarda solo muri ma anche vere e proprie opere d’arte se non luoghi sacri. Compiere lunghi percorsi per poter scattare una fotografia degna dei social media non è un’attività così insolita, anzi. Spesso i luoghi di destinazione non sono anonimi ma hanno un valore storico culturale che viene completamente appiattito dalla necessità di sfruttarne l’immagine per incorniciare la persona. La cosa è evidentemente problematica non solo per quanto riguarda il drammatico dispendio di tempo ed energie personali, ma soprattutto per la strumentalizzazione che culture ed elementi della cultura di un luogo subiscono.

Fake follower
Dopo un’apertura iconica il documentario prosegue mettendo il luce i meccanismi con cui si può diventare velocemente insta-famous. Non si tratta di ragionamenti centrare su contenuti e messaggi quanto più sulla creazione di una cortina di follower, like e commenti, quindi di engagement, che restituiscano un’immagine già affermata. La costruzione del contenuto è secondaria e improntata sulla creazione di una dispercezione della realtà. I fake influencer vengono fatti posare in luoghi improbabili che grazie a ritocchi fotografici, luci ed ambientazioni vengono presentati come ambienti di lusso da ambire, come ad esempio la piscina del Four Seasons. La creazione di contenuti fake unita all’acquisto di bot e like fasulli creano l’illusione della vita da influencer, alimentando immediatamente il sistema della finzione.

Com’è possibile che ciò accada?
I social media si basano su selezione ed imitazione. Le persone scelgono cosa postare in base a ciò che desiderano venga percepito, ovvero ciò che considerano essere più desiderabile agli occhi di chi scorrerà la bacheca o la home. Da questa selezione nasce il vizio di forma dei social media che non mostrano la realtà ma una porzione della stessa. Eredi dei reality show contribuiscono però a creare la condizione che ciò che si vede tra i loro codici sia la realtà. La presenza di questa selezione unita alla modalità di valutazione dei contenuti, basata su numero di mi piace e follower, modifica i comportamenti e le ambizioni di chi fruisce di quel contenuto. Le persone non si trovano solamente a desiderare un’esperienza simile ma possono quantificare il giudizio che altre persone danno a quell’esperienza. La capacità di scelta e di selezione è quindi viziata da questa interazione che porta all’emulazione di un prodotto immagine istantaneamente percepito come desiderabile. Posta la necessità di realizzare una specifica narrazione gli utenti cercano di ricrearla come possono investendo denaro, tempo ed energia. Nel momento in cui il contenuto non viene apprezzato, però, nasce il bisogno di creare quell’interazione che si stava cercando. Ed ecco che i siti che vendono bot e like appaiono all’orizzonte.
Come si compra l’engagement?
Comprare l’engagement è relativamente semplice. Bisogna entrare in gruppi di scambio di like e commenti o acquistarli. La pratica è così diffusa che in molte nicchie viene considerata normale, funzionale, alla crescita sui social. Ciò che si realizza in verità è un bacino di utenza fittizio basato su un do ut des che non riflette alcun reale interesse. La questione diventa seriamente problematica quando subentrano collaborazioni e lavori. Aziende, enti del turismo, agenzie e brand sono disposti ad investire una buona porzione di budget in questo tipo di pubblicità. Perché l’investimento sia giustificato si cercano delle garanzie, in questo specifico caso date dai numeri. Se i numeri sono gonfiati il brand sta sostanzialmente subendo una truffa. Infatti la collaborazione basata sullo scambio si traduce in un investimento orientato da indicatori non reali, che nel mondo non regolato dei social consento ai fake influencer di costruire guadagni e una credibilità basata sul nulla.
Quanto costa un post di Instagram?
Nel documentario le cifre sono snocciolare in fretta, quasi fossero un elemento passeggero, ma che in realtà restituisce il quadro completo della questione. Si parla di post su Snapchat pagati 36.000 dollari, di 18.000 dollari investiti per un tweet e del valore di un post di Kim Kardashian West pari a 500.000 dollari. Il giro di denaro però non si limita solo ai guadagni effettivi, ad essi infatti vanno sommati i prodotti e le esperienze offerte. Se gli influencer più noti riescono a guadagnare cifre importanti, nella nicchia dei micro influencer, quelli in un range follower compreso tra i 10.000 e i 15.000, ci sono persone in grado di ottenere 200 euro per un singolo post. Eppure il mercato non è limitato ai soli influencer. Dalle agenzie di management, spesso responsabili di acquisiti follower per conto dei loro clienti, ai creatori delle fattorie di bot da vendere il guadagno può sfiorare i milioni di dollari al mese.
L’importanza dei social media
Una delle frasi più udite nelle agenzie di comunicazione è che “bisogna costruire una presenza online“, in poche parole se non si è su Instagram il prodotto non esiste. Questo è tristemente vero anche per le persone. Anche chi è famoso per ragioni esterne ai social non è immune dal bisogno di raggiungere determinati numeri e quindi uno specifico valore. L’ Istituto di Performance Musicale Contemporanea ha redatto uno studio che ha permesso di individuare alcuni account dai numeri gonfiati tra quelli delle persone più note al mondo:
- Ellen DeGeneres – 49%
- BTS – 47%
- Kourtney Kardashian – 46%
- Taylor Swift – 46%
- Ariana Grande – 46%
- Deepika Padukone – 45%
- Miley Cyrus – 45%
- Katy Perry – 44%
- Khloe Kardashian – 43%
- Priyanka Chopra – 43%

Salute mentale e social media : FOMO
La Fomo, paura di rimanere esclusi, è una forma di ansia sociale direttamente correlata all’uso dei social media. Essa si manifesta in diversi modi, dal bisogno di postare continuamente proprio per non perdere qualcosa, all’ansia di postare per paura di non riuscire ad ottenere il gradimento sperato. Spesso la FOMO spinge le persone a mettere in atto strategie per ottenere la gratificazione ricercata, proprio mediante l’acquisto di follower ed engagement. La FOMO non nasce come elemento relativo unicamente ai social media e deriva dalla percezione delle vite altrui percepite come migliori che spingono l’individuo a dequalificare la propria esistenza. La ragione per cui i social media sono il luogo ideale per il proliferare del problema appare ovvia, se tutto ciò che viene percepito è frutto di una selezione e di una costruzione atta a realizzare la miglior percezione di sé possibile, chi effettivamente fruisce di quel contenuto si ritrova, sulla base di quelle poche informazioni, a valutare di conseguenza sè stesso, le proprie esperienze e la propria vita.
FOMO (acronimo per l’espressione inglese fear of missing out, letteralmente: “paura di essere tagliati fuori”) indica una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone, e dalla paura di essere esclusi da eventi, esperienze, o contesti sociali gratificanti.
Fomo, Wikipedia
Persone come merce
Il grave problema del lavoro sui social media non riguarda solo la creazione di account fake e la capacità di attrarre aziende e brand su premesse false, ma riguarda anche il ruolo che la persona umana vi ricopre. Gli individuo diventano merce, i loro corpi, le loro espressioni sono a tutti gli effetti un cartellone pubblicitario. Se il lavoro monotono e distaccato dalla creazione finale portava all’alienazione del lavoratore, il lavoro basato unicamente sull’immagine della persona rischia di generare una conseguente alienazione del singolo dal proprio corpo, dalle proprie parole e dalle proprie idee. Quanto costa far dire a quell’influenzar da 1 milione di follower che ama il nostro prodotto? Quanto costa fargli esprimere apprezzamento verso un brand non sostenibile? Qual’è, in sostanza, il prezzo delle idee e degli ideali?
Non tutti i social media vengono per nuocere
Il valore dei social media è palese: consentono uno scambio costante, fluido e inarrestabile di informazioni. Sono un luogo virtuale di aggregazione che può portare alla costruzione di eventi, proteste o denunce reali. Permettono alle storie di essere narrate e a chi non avrebbe avuto spazio di far sentire la propria voce. Sono uno strumento straordinario. Eppure il loro uso è spesso tossico. Questo perché essendo una realtà relativamente nuova ci sono ancora pochi meccanismi di interazione basati su un’educazione al social. Chi ne fruisce attualmente lo fa da autodidatta e sperimenta su sè stesso la sregolatezza di questo mondo. Approcciarsi ad un generatore di endorfine e insicurezza senza un’etica, una struttura educativa ed una solida base può essere distruttivo. La questione centrale non è più il cosa si sta comunicando ma quante persone possa raggiungere. Il senso, l’azione, la creatività, l’idea viene subordinata alla diffusione. Nascono allora profili che parlano di sostenibilità ma negano i dati sull’impatto del veganismo o accettano collaborazioni da brand sostenibili. Nascono divulgatori non formati che non appena il femminismo non sarà un tema Hype torneranno a trattare di moda. Ciò che resterà del loro passaggio è la strumentalizzazione, la mercificazione e la disinformazione, nonché un numero consistente di follower.
Cosa sono i follower?
Ciò che spesso passa in secondo piano è cosa rappresentino i follower. Tecnicamente ogni singolo follower corrisponde ad un individuo che ha scelto di inserire nella propria esistenza la narrativa di qualcun altro. Sono persone con vite, esperienze e circostanze varie. Nel mondo social sono totalmente assorbiti dall’insieme, dal valore, finale, perdendo la loro individualità. Per i brand sono potenziali consumatori, per gli influencer sono la loro valuta e il loro valore. Un valore visibile e misurabile che molti ritengono opportuno aumentare onde controllare e gestire quella valutazione. Maggiore il numero di follower, maggior il valore economico ed umano dell’individuo.
Baby influencer
Il documentario offre una chiusura emotiva importante mostrando una carrellata di baby influencer, ovvero bambini che posano e postano, o i cui genitori postano, su Instagram. Alcuni di essi hanno profili con milioni di follower, fanno collaborazioni, lavorano e guadagnano denaro. I genitori ne sfruttano l’immagine, ne anticipano la mercificazione e spesso anche la sessualizzazione. Il tutto per la fama e per i soldi. Si tratta sostanzialmente di fornire manodopera minorenne, spesso gratuita, a brand, aziende e ai social media stessi che lucrano su ogni singolo post, anche su quelli che all’influencer fruttano zero denaro e una buona dose di ansia.

Benvenut* nel capitalismo dei social media.
Il documentario Fake Famous è disponible su Sky o in streaming sul sito della HBO. Ne consigliamo caldamente la visione, unita a quella di The Social Dilemma, disponibile su Netflix.