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28° Anniversario del genocidio del Rwanda: fra eredità coloniale e stereotipi mai sopiti

Il 6 Aprile è stato il 28° anniversario di uno dei fatti più tragici del ventesimo secolo, il genocidio del Rwanda, in cui persero la vita centinaia di migliaia di persone, da cui si innescarono imponenti flussi migratori verso i paesi adiacenti e scaturirono ulteriori violenze e guerre.

Ultimamente sono state evidenziate le colpe dirette dell’occidente e, soprattutto, l’indifferenza che i media occidentali hanno riservato a questo terribile evento, indifferenza che, a quanto pare, a distanza di ventotto anni sembra non essere ancora sparita. Per capire le radici profonde da cui è scaturito l’odio e i massacri del 1994 bisognerebbe partire dal retaggio coloniale lasciato dai belgi dopo il primo dopoguerra. Retaggio che sopravvive in stereotipi e forme narrative largamente diffuse anche nel nostro paese.

Basta pensare ad una nota canzone italiana del 1963, “I Watussi” di Edoardo Vianello, ancora molto ascoltata, per vedere quanto gli stereotipi e il razzismo derivanti dall’eredità coloniale belga siano ancora parte attiva della discriminazione razziale.

La canzone di Edoardo Vianello ci viene spesso proposta in televisione, cantata ancora dallo stesso autore, su palcoscenici di grande visibilità, ultimo tra questi, ma non certo per importanza, la serata di capodanno 2022 condotta da Amadeus sulla RAI. 

Il testo della canzone è noto a tutti e nel corso del tempo la discussione tra chi urla alla dittatura del politicamente corretto, innalzando la canzone a pilastro della musica italiana, e chi invece critica la canzone per via di un testo problematico, frutto di una visione fortemente colonialista, e per la presenza di slur razzisti al suo interno è diventata sempre più accesa.

Edoardo Vianello ha, arbitrariamente, eletto la sua canzone a patrimonio dell’umanità e, in un’intervista andata in onda a Quarta Repubblica, si è soffermato sul fatto che lui mai e poi mai ne cambierà il testo. Una delle motivazioni addotte dal cantante è che a scuola gli è stata insegnata l’esistenza di diverse razze tra cui quella dei “pelli rosse”, quella dei “gialli” e quella dei “ne*ri”. Giustifica così non solo l’inserimento di uno slur razzista, ma anche una certa visione razzista e suprematista del mondo per cui un cantante, nemmeno a distanza di 59 anni, può pensare di ragionare su parole e stereotipi apertamente e dichiaratamente razzisti.

Tralasciando gli insegnamenti e quello che ha appreso il giovane Edoardo Vianello dalla scuola degli anni 40-50, è importante capire in che modo, il testo della canzone, sia nato dalla stessa radice razzista e colonialista che ha portato al compimento di alcuni dei fatti più gravi e tragici del 21° secolo, tra cui il genocidio del Rwanda.

Nel testo si fa riferimento al popolo dei Watussi che vengono descritti come un popolo di persone altissime, ma chi sono esattamente i Watussi?

Nelle lingue bantu, molto diffuse nell’africa centrale, il plurale si indica con il prefisso Ba o Wa, da cui si determinano le parole per indicare chi fa parte di una precisa etnia o popolo: i baKongo, quindi persone che appartengono al popolo dei Kongo, i baLuba al popolo dei Luba e infine i wa Tutsi (da cui il watussi della canzone) al popolo dei Tutsi

I Tutsi sono il secondo dei tre più grandi gruppi etnici della regione dei grandi laghi dell’Africa centrale, i primi sono gli Hutu e i terzi, sempre per numero, i Pigmei del gruppo dei Twa. Nel corso di tutto il 21° secolo si sono susseguiti atti di tremenda violenza principalmente fra Tutsi e Hutu, culminati nel 1994 nel tristemente noto genocidio del Rwanda innescato dall’abbattimento dell’aereo presidenziale sul quale viaggiavano i presidenti di Rwanda e Burundi, entrambi di etnia Hutu.

Ma da dove principia la violenza e l’odio che si è alimentato durante tutti questi decenni? 

Tutto ha origine con l’arrivo dei belgi in Rwanda, subentrati ai Tedeschi dopo la loro sconfitta nella prima Guerra Mondiale, nel 1917, dove trovarono due fasce sociali ed economiche distinte, i Tutsi che erano in prevalenza allevatori, e gli Hutu, agricoltori. I belgi, già dal 1907, sotto consiglio del professore universitario Félicien Cattier istituirono il Bureau International d’Ethnographie per condurre studi antropologici sulle popolazioni del Congo, a detta loro, per portare avanti politiche coloniali più corrette e per non ripetere gli errori fatti da Leopoldo II con la sua folle politica di estrazione del caucciù.

Questi studi portarono alla raccolta di quattrocento mila dati etnografici sulle popolazioni dell’Africa centrale e alla redazione della Collection des monographies ethnographiques.

Il risultato fu che le persone di diverse tribù vennero considerate appartenenti a “razze” diverse, non venne dato peso agli scambi secolari che erano intercorsi fra i diversi popoli dell’Africa centrale, rendendo così stagnante la concezione dell’esistenza di etnie immobili nel tempo. Tali studi antropologici non erano certo finalizzati al benessere del popolo “indigeno” come dichiarato dall’ideatore del progetto, Cyrille van Overbergh, servivano invece ad accelerare il processo di colonizzazione fornendo dati su dati a missionari, medici e militari che, a seconda degli usi e delle usanze dei popoli incontrati, potevano calibrare i loro metodi per convertire, arruolare nell’esercito e/o infine curare i nuovi cristiani e i nuovi militari della Force publique

In tutto questo i belgi introdussero anche altre novità in Congo e successivamente in Rwanda: a causa delle frequenti epidemie della malattia del sonno, della malaria e di altre malattie, imposero l’obbligo per popoli indigeni di richiedere all’autorità centrale un’autorizzazione per potersi spostare da un villaggio all’altro e ridurre così la diffusione delle malattie, questo portò, oltre a un’interruzione di scambi culturali fra le diverse tribù, ad una cristallizzazione degli stereotipi riguardanti gli altri villaggi che i missionari si impegnavano ad insegnare e spiegare nelle loro neonate scuole. Ecco così che un bambino che andava a scuola dai missionari veniva a conoscenza di tribù lontane centinaia di chilometri, tribù che probabilmente non avrebbe mai incontrato, e, soprattutto, veniva istruito sui loro presunti pregi e difetti e indirizzato verso un’opinione ben precisa a riguardo.

Questa politica portò i Belgi ad eleggere i Tutsi come “razza” superiore a quella Hutu. Gli antropologi europei fornirono anche una spiegazione, pseudoscientifica, asserendo che i Tutsi fossero discendenti della razza camitica, ovvero i discendenti di Cam, uno dei figli di Noè, fatto questo che poneva i Tutsi in un grado di prossimità agli europei maggiore di quello degli Hutu, e quindi giustificava la creazione di un’aristocrazia destinata a regnare sul resto del paese in contatto con i coloni Belgi.

Si sono susseguiti studi e teorie per capire se i Tutsi fossero effettivamente appartenenti a un ceppo etnico diverso da quello degli Hutu, ma tutt’oggi non ci sono studi che lo provino. Le tre principali teorie a sostegno di una loro presunta diversità sono quella della migrazione, quella antropologica e quella genetica. Le prime due fanno riferimento, come detto, ad un’ipotizzata discendenza dalla razza camitica, mentre più recenti studi genetici non sono riusciti a dimostrare nessuna reale differenza tra hutu e tutsi, come specifica Joseph C. Miller nel suo New Encyclopedia of Africa:

[…]generations of gene flow obliterated whatever clear-cut physical distinctions may have once existed between these two Bantu peoples – renowned to be height, body build, and facial features. With a spectrum of physical variation in the peoples, Belgian authorities legally mandated ethnic affiliation in the 1920s, based on economic criteria. Formal and discrete social divisions were consequently imposed upon ambiguous biological distinctions. To some extent, the permeability of these categories in the intervening decades helped to reify the biological distinctions, generating a taller elite and a shorter underclass, but with little relation to the gene pools that had existed a few centuries ago. The social categories are thus real, but there is little if any detectable genetic differentiation between Hutu and Tutsi.

I belgi teorizzavano così una differenza genetica tra due classi sociali che fino ad allora avevano convissuto senza particolari problemi, portando alla nascita di invidie e risentimenti, il tutto solamente per potersi appoggiare a un’élite e controllare meglio i loro interessi nel territorio.

Per colpa di queste folli teorie si instillò anche nella popolazione l’idea che esistesse un’etnia dominante e superiore all’altra, gli altissimi Tutsi (stereotipo ripreso dalla canzone di Vianello), più belli, intelligenti, più europei e quindi più meritevoli di comandare sugli altri, e una inferiore da dominare, gli Hutu.

Queste determinazioni di interesse portarono a innumerevoli atti di violenza e a tre genocidi:

  • Ikiza in Burundi nel 1972 dove i Tutsi al potere sterminarono fra i 100.000 e i 300.000 Hutu
  • In Burundi nel 1993 dove a seguito dell’uccisione del presidente Ndadaye furono sterminate dal governo Hutu al potere più di 100.000 persone la cui etnia non è stata confermata tutt’oggi
  • In Rwanda nel 1994 dove, a seguito dell’assassinio dei presidenti Hutu del Rwanda,  Juvénal Habyarimana, e del Burundi, Cyprien Ntaryamira, il 6 Aprile 1994, persero la vita tra le 500.000 e le 800.000 persone di etnia Tutsi e quelle di etnia Hutu giudicate colpevoli di essere simpatizzanti dei Tutsi.

Dagli ultimi due genocidi si generarono ampi flussi migratori di persone Hutu verso i paesi confinanti, fra cui 1.5 milioni di persone verso il regno dello Zaire, futura Repubblica democratica del Congo composto sia dai Tutsi, scappavano in fuga dal genocidio, sia, dopo la caduta del governo e l’ascesa del RPF, dagli Hutu.

Non furono solo le persone a migrare, ma anche il conflitto stesso che si estese:

  • Prima guerra del Congo (1996-1997): le violenze degli Hutu si spostarono in un altro paese e presero di mira i Tutsi che erano arrivati in Congo e le tribù dei  Banyamulenge e degli Banyarwanda, entrambe tribù a maggioranza Tutsi,. Questo scatenò l’attrito che tra l’allora regno dello Zaire, il Sudan e il Chad, supportati da una coalizione di altri paesi, e Rwanda, Uganda e Burundi, anche loro supportati da altri paesi alleati. Questa guerra causò tra le 250.000 e le 800.000 vittime e portò alla scomparsa di 220.000 rifugiati.
  • Seconda guerra del Congo (1998-2003): caduto l’ex regno dello Zaire, si autoproclamò presidente della nuova Repubblica Democratica del Congo Laurent-Désiré Kabila, comandante di un’armata composta da Tutsi nella prima guerra del Congo. In un primo momento il Generale acconsentì alla presenza di truppe Rwandesi e Ugandesi sul territorio, ma non appena il malumore generale crebbe decise unilateralmente di dare un ultimatum a tutte le potenze militari straniere presenti sul territorio Congolese: offrendo24h di tempo per lasciare il paese. Questo generò nella tribù dei Banyarwanda la forte preoccupazione che, senza la protezione degli eserciti di Rwanda e Uganda all’interno del paese, le violenze anti Tutsi potessero ricominciare, decisero quindi di armarsi. Scoppiò una ribellione da cui scaturì la seconda guerra del Congo. Nel conflitto morirono più di 350.000 persone, vittime dirette della guerra, e più di 5 milioni per cause indirette derivanti dalla guerra.

A causa di quella sciagurata, ma calcolata, idea dei Belgi di dividere Hutu e Tutsi in “razze” diverse morirono approssimativamente più di 7 milioni di persone solo dagli anni 90 in poi. 

Oggi, sotto i video della canzone di Vianello presenti sulla piattaforma youtube si possono leggere commenti, accuratamente selezionati da chi quel video l’ha caricato, che definiscono stupide tutte quelle persone che criticano la canzone, o ancora che spiegano come la dittatura del politically correct stia rovinando tutto e che argomentano la strenua difesa di Vianello asserendo che un pilastro della canzone Italiana non debba e non possa cambiare di una virgola.

Tornando al 1963, in Italia non si sapeva niente dell’origine dei watussi e non si immaginava che un paese come il Congo, che aveva raggiunto l’indipendenza appena tre anni prima, sarebbe stato il centro di quelle che poi sarebbero state definite le guerre mondiali Africane e che appena 41 anni dopo in Rwanda si sarebbe compiuto uno dei più grandi genocidi che la storia ricordi.

In Italia si voleva dimenticare la guerra, si stava vivendo il boom economico e si voleva ridere ed essere intrattenuti, e tanto bastava a giustificare la creazione di una canzone basata su ignoranti pregiudizi instillati dai coloni Belgi più di quarant’anni prima, ma evidentemente mai dimenticati da noi occidentali che tutt’oggi non solo pensiamo ai Watussi come un popolo di altissimi neri, immutabili nel tempo nelle loro capanne alle falde del Kilimanjaro, ma difendiamo a spada tratta una canzone che perpetra questo tipo di stereotipi.

Forse bisognerebbe capire che le critiche rivolte alla canzone non sono frutto di una dittatura del politicamente corretto o di un desiderio di censura malriposto. Bisognerebbe invece riconoscere l’impatto che l’uso protratto nel tempo di stereotipi e pregiudizi può avere, e ha avuto, sulle persone e sulle società, cercando quindi di non reiterare comportamenti pericolosi e di emancipare la società dalla visione eurocentrica e colonialista, scegliendo perciò anche di non ascoltare, e difendere, canzoni che continuano a portare avanti questi stereotipi che avrebbero dovuto scomparire già molto tempo fa.

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