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Greta Beccaglia, i padri di famiglia e la cancellazione

La storia della violenza che ha colpito Greta Beccaglia, nell’immediato post partita Empoli-Fiorentina, è ormai nota a chiunque abbia usato un social o letto un giornale negli ultimi tre giorni. Anche la reazione del conduttore, Giorgio Micheletti, è stata ben scorporata ed analizzata. Infine, è giunto ieri il terzo elemento: l’intervista a uno degli uomini che ha compiuto la violenza.

Il Corriere Fiorentino titola : Greta Beccaglia, il molestatore è un ristoratore marchigiano: «Non sono cattivo».

La gazzetta dello sport segue : Il molestatore di Greta Beccaglia prova a scusarsi: “Non sto bene per quello che ho fatto”.

Il Resto del Carlino propone : Andrea Serrani e le molestie alla giornalista: “Ho fatto una cavolata, chiedo scusa”.

Infine Libero completa con un : Greta Beccaglia, il molestatore disperato: “Sono distrutto e la mia compagna ora…” Dramma in famiglia. Da notare i tag in calce al titolo : GretaBeccaglia, AndreaSerrani e Palpatina. 

Questi titoli giungono a coronamento di una verità drammatica che riguarda il fatto tanto quanto il giornalismo, una considerazione che dovrebbe creare un istante di silenzio e di  sincero sbigottimento, non solo il giornalismo non sa parlare di violenza di genere, ma questa sua ignoranza è violenza secondaria condonata e socialmente accettata.

I titoli, infatti, stanno seguendo la traccia canonica con cui vengono raccontati i fatti di violenza, percorrono uno schema preciso che è predeterminato proprio da un sistema che insegna un linguaggio inadatto per cancellare le vittime di violenza. 

Il Resto del Carlino, ad esempio, titola con nome e cognome della persona che ha commesso la violenza seguito da un riferimento alla persona offesa indicata come giornalista, il nome di Greta Beccaglia non viene menzionato. L’assenza dei nomi e dei cognomi, come pure l’uso del solo nome sono una costante della narrazione giornalistica. Le donne vengono ricordate in maniera generica, imprecisa e spesso confidenziale. Greta Beccaglia è stata più volte indicata come “Greta” nei titoli. L’uso del nome proprio presume una certa confidenza tra le parti ed è fuori luogo in un contesto narrativo in cui si cerca di informare. Si crea una falsa vicinanza, un orpello emotivo che copre il reale significato della privazione del cognome: la considerazione iniqua delle donne nel linguaggio. Le donne sono elemento narrativo, non soggetto, e rimangono ascritte alle categorie dell’indeterminatezza perché non importante chi siano quanto più cosa si possa dire di loro. Il che ripercorre i tratti dell’etichettatura basata sui ruoli di genere. Le donne sono incastrate semanticamente nella dicotomia della santa o della puttana, della madre o della donna imperfetta. L’imprecisione è l’unico mezzo narrativo con cui sono indicate, negando quindi loro la soggettività. L’oggettificazione e la strumentalizzazione corporea e narrativa sono funzionali alla negazione di umanità, perché da essa presupporrebbe quantomeno il dubbio sulle modalità di esistenza loro imposte. Riconoscere soggettività e autodeterminazione sono azioni che prevedono, come requisito sostanziale, il rispetto della dignità umana dell’individuo in questione. Nel sistema patriarcale, la dignità umana delle donne è negata proprio perché da tale negazione deriva il sistema di potere

Greta, come fosse l’amica che si conosce da una vita, un carattere di familiarità fuoriluogo e poco professionale che ricorda l’unica modalità di empatizzazione di cui è capace il sistema : la prossimità. Se la donna è amica, conoscente o parente, allora è degna di tutela. La donna estranea, quella che non appartiene al conosciuto, invece è esente da quella tutela. Starebbe ai suoi prossimi, maschili proprietari, tutelarla e se non lo fanno è considerabile territorio libero. Terra non occupata. Un paragone essenziale quello della donna ignota alla terra, entrambe sono oggetto di violenza, dominio, usurpazione e oppressione. La donna è territorio nella cultura patriarcale. Terreno da acquisire per prestigio, dimostrazione di dominio, da controllare per estrarne frutti e da bruciare quando non risponde alle aspettative. La donna come terra, non ha nomi e cognomi, è solo un bene. Infine, Greta, non è certamente una scelta casuale. Greta è il nome proprio di Thumberg, uno dei nomi più ambiti in termini di SEO. Scrivere un buon Greta può stuzzicare chi non sa nulla dell’accaduto tanto quanto gli algoritmi di posizionamento. La storia di Greta Beccaglia diventa una macchina da soldi nell’arco di pochi tocchi di tastiera. 

Greta senza cognome, vende, permette di apporvi un carattere di generalità e familiarità, di negare nuovamente il valore della persona in questione contrapponendolo al riconoscimento di nome e cognome per il maschile. Ed ora parliamo del maschile in questa storia. Il maschile giustificato e difeso nelle persone di Giorgio Micheletti e Andrea Serrani.

Giorgio Micheletti, assistendo alle violenze in diretta, dice a Greta Beccaglia di non prendersela, di chiudere il collegamento per reagire, così “ ti permettiamo di reagire” e di farlo con uno schiaffone che se fosse stato dato agli aggressori da bambini sarebbe certamente stato deterrente per quella situazione. La critica levatasi nei confronti di Micheletti specificava la presenza di tentativi di cancellazione nel dire a Beccaglia di non prendersela. Micheletti si è scusato e Beccaglia ha difeso le sue scuse. Il che però non significa che le azioni di Micheletti non debbano essere denunciate e che non debba essere pretesa una responsabilizzazione. Se le strade per l’inferno sono lastricate di buone intenzioni, il cancello di ingresso è verniciato di “non volevo e non sono cattivo”. La difesa, traslata poi su Serrani, riguarda un presunto giudizio morale imposto sull’individuo. Il fatto che la difesa si concentri sulla qualità umana è dovuto al fatto che, il maschile generico, usa la qualificazione e la dequalificazione personale come mezzi per premiare e punire, dunque è funzionalmente incapace di comprendere che la critica, nel secondo caso l’accusa, non ha nulla a che fare su come queste persone vogliano rappresentarsi nel sociale, dal brav’uomo al padre di famiglia, quanto più sulla gravità delle azioni commesse. 

Ed ecco una seconda opera di cancellazione, quella operata dai difensori di Micheletti che chiamano alla caccia alle streghe, probabilmente iniziando a sentire la coda di paglia bruciare. Sminuire la gravità delle sue parole implica negare la gravità della violenza secondaria, una forma di delegittimazione della vittima che attraverso delle manipolazioni psicologiche ed emotive riduce la gravità dell’atto subito. La violenza secondaria si realizza in modi e circostanze diverse, ma è una delle forme più diffuse di violenza istituzionale. La negazione della veridicità della denuncia, delle storie delle vittime, del diritto di considerare qualsiasi atto violento una grave violazione sono strumenti sociali che, declinati nel civile quanto nello statale, evitano la consapevolezza e l’azione necessaria a debellare la violenza di genere. Il respingimento, dopo una violenza, non fa che sommersi ai danni piscofisici rischiando di precipitare la vittima in una spirale di solitudine e isolamento. 

Micheletti cancella e i suoi difensori, per proteggere lui, cancellano nuovamente. La presa di coscienza è rimandata e la seduta è aggiornata, il verdetto è lo status quo ordinario

Giungiamo quindi all’aggiunta di Serrani sui giornali. Serrani che si scusa, che non vive più, il padre di famiglia, il ristoratore, insomma l’uomo che per una “palpatina” non vive più.

Padre di famiglia è la difesa morale per eccellenza. I figli sono lo scudo con cui si respinge l’accusa di violenza. Un uomo è migliore in funzione delle persone che gli stanno intorno, di solito la madre, la moglie e i figli. Tutte figure che ne determinano la validità umana, la bontà automatica e che, quindi, non può essere messa in discussione. Se fossimo in presenza di un linguaggio onesto noteremmo che l’essere padre è un’aggravante più che una scusa. Infatti, i padri come le madri, educano. Ed una persona che considera normale dopo una partita usare violenza sessuale su un’altra persona potrebbe trasmettere ai figli tale normalità, educando quindi alla violenza di genere. Soprattutto a non considerare atti come quello da lui compiuto violenza di genere. Nell’immaginario collettivo, infatti, la violenza è solo quella tangibile. Ecco perché le violenze sessuali, nella loro variegata natura, e quelle psicologiche non sono considerate tali. In assenza del livido o della morte, la violenza non esiste. Questa dispercezione non è solo un problema della società civile, ma anche delle forze dell’ordine che non ricevono una formazione adeguata a riconoscere la violenza di genere e ad intervenire prima che si trasformi in un epitaffio.

Ristoratore, l’enfasi sulla professione non è casuale, non in questo periodo. I ristoratori sono stati spesso rappresentati sui giornali per via delle perdite economiche dovute alla pandemia e delle proteste realizzate da alcuni di essi. Nel lettore, si insinua un’altra piccola goccia di empatia verso un un papà che fatica a guadagnare denaro da ben due anni. L’empatia nei confronti dei violenti diventa subito giustificazione. Di lui si immaginano la frustrazione e la rabbia, quindi la necessità di sfogarli. E quale terreno migliore di un corpo femminile dopo una partita di calcio. Ancora una volta, si usano le normali emozioni di solidarietà in maniera distorta al fine di proteggere il sistema, esteso all’azione di Serrani.

“Non sto bene, sono distrutto, ho fatto una cavolata”. Si passa quindi alla narrazione diretta di Serrani che diventa protagonista. Il suo dolore viene raccontato, evidenziato, messo nei titoli. Il suo dolore è valido, visibile e tangibile. Del dolore di Beccaglia non si parla. Perché una pacca non può causare trauma e dolore nell’immaginario collettivo. Di lei si è raccontato lo stoicismo, il desiderio di tornare a lavorare come e meglio di prima. E se questa è la sua storia ed è corretto che sia lei a dettare i canoni con cui essa debba essere narrata è altresì vero che nella rappresentazione della violenza, il dolore, viene narrato nella sua estrema connotazione o nella sua assenza. Alle donne, riprendendo il discorso di prima, viene insegnato che la violenza è una ed una sola, che lo stupro è tale solo se la vittima urla, strepita ed era vestita modestamente, che il dolore è solo quello fisico dovuto a percosse brutali. L’educazione di sistema sopprime ogni altro dolore, perché non è degno, non è colorato come un livido su un punto non celabile del viso. Un dolore diverso da quello spettacolarizzabile dal giornalismo non è contemplato, in poche parole non esiste nell’immaginario comune. A meno che, non sia il dolore di un padre, di un brav’uomo la cui unica colpa è aver commesso “una cavolata”. L’immaginario dell’imprudenza, dell’azione occasionale e sciocca permette di fare aderire varie forme di violenza all’idea della ragazzata, un’azione compiuta senza malizia con la leggerezza dell’età infantile. Nulla di perseguibile o verso cui responsabilizzarsi.

La gogna pubblica. Il problema non riguarda solo Micheletti e Serrani, ma anche il linguaggio degli internauti che nello spazio delle tastiere degli smartphone danno sfogo ad ogni pensiero, ragionato o meno. I casi come questo sono altamente mediatici ed è purtroppo vero che vi sono personalità che lucrano semplicemente strumentalizzando il bisogno di nuovi canoni narrativi. Figure che, immerse anch’esse in profondo sessismo sistemico e avendolo interiorizzato, non riescono a prescindere dalla personalizzazione del discorso, trasformando un’occasione di confronto e costruzione nell’ennesimo palco individuale. La gogna pubblica è uno strumento impietoso, figlio di un sistema che sfrutta l’immagine dell’eccezione per riconfermare sè stesso. Difendere Micheletti e Serrani appiattendo il dibattito all’immagine della pubblica ghigliottina, però, è un ulteriore azione di cancellazione. Vi è differenza tra il dibattito pubblico e la gogna, e la si rintraccia nella finalità delle parole usate, il primo costruisce il secondo permette l’emersione individuale mediante distruzione. Il dibattito ha il pieno diritto di essere rabbioso, infatti è quasi interamente portato avanti dalle persone direttamente oppresse da azioni come quelle compiute da Micheletti e Serrani. La rabbia non è illegittima, come pure il dolore. Sono emozioni umani e assolutamente fisiologiche in un sistema che opprime con la violenza e giudica la rabbia. La rabbia della parte oppressa viene negata per legittimare quella della parte oppressiva. 

Analizziamo quindi le parole dell’avvocato Roberto Sabatini “Auspico una composizione bonaria. Sarei felice se la dottoressa conoscesse Andrea, un imprenditore, una bravissima persona, padre di famiglia, che è sempre stato rispettoso verso le donne. Il suo gesto è inutile da commentare, mi sento però di dire che nel gesto di Serrani, quanto meno nelle sue intenzioni, non c’era alcuna connotazione di tipo sessuale”, ha dichiarato il legale.

Di nuovo, i rimandi alla figura mitologica dell’uomo perbene, padre di famiglia. Padre di famiglia, è una locuzione che racchiude ben più di quanto si pensi. Padre di famiglia, deriva direttamente dal latino pater familias, indica la massima autorità in casa, il titolare di diritti sui membri, il protettore della casa e decisore finale. Il proprietario della famiglia, significato che italiano viene un po’ smascherato da quella piccola preposizione semplice “di” che introduce il complemento di specificazione, l’oggetto su cui si esercita il possesso. Il corrispettivo materno, madre di famiglia, non esiste. Perché le donne non esercitano un ruolo possidente ma accudente, esse sono parte su cui e non membro con pari azioni. La famiglia rimane possesso del maschile, che quindi se ne può servire. Il legale sostiene che il suo cliente sia sempre stato rispettoso verso le donne che nelle sue intenzioni non v’era nulla di sessuale. Il rispetto per altri esseri umani non è condizione intermittente, quando viene meno è perché la normalità era già indirizzata all’assenza di tale rispetto. In un contesto come quello dello stadio, che meriterebbe un approfondimento a sé stante, entra in gioco un meccanismo di esaltazione sociale noto come euforia collettiva. L’euforia collettiva non è un fatto negativo, anzi, è il fenomeno alla base della sensazione di piacere che si prova ai concerti, quella collettiva esaltazione gioiosa e condivisa. Il percepire il sé nell’altro e nella moltitudine il sé è una sensazione grandiosa e importante nella vita consociata. Il problema sorge quando l’euforia collettiva si scatena in contesti disfunzionali, in cui le dinamiche collettive sono viziate da elementi pericolosi, in questo caso il sessismo. Non sorprende quindi che Serrani, unico identificato ma non unico attore di violenza, non sia stato il solo a colpire Beccaglia. 

Il rispetto di cui parla il legale non è reale.

Che nelle intenzioni di Serrani non vi fosse nulla di sessuale è più articolato da spiegare. La componente non è sessuale ma sessualizzante. Il sesso è un atto volontario e consenziente per tutte le persone che vi partecipano. Ogni altra variazione esula dall’ambito del sesso e rientra nelle azioni imposte su corpi altrui scissi dal riconoscimento di personalità. L’azione fisica commessa da Serrani deriva da una sessualizzazione oggettificante delle donne che non è atta ad esprimere desiderio, ma ad imporre l’uso e l’abuso del corpo. Si tratta di una reclamazione di usufrutto, proprio perché il corpo non è considerato parte della persona colpita, ma elemento di cui fruire. Di nuovo, il corpo è  considerato cosa occupabile dal potere esterno. Le intenzioni sono orientamenti della coscienza, qualcosa di non determinabile se non sull’esternazioni di tale coscienza. Azioni e parole, sono cariche di intenzioni e hanno effetti che possono trascenderle. Vien difficile immaginare quali altre intenzioni se non quelle violanti dell’integrità del corpo di Beccaglia ci fossero nel gesto di Serrani. Specularmente è decifrabile la ratio dietro l’affermazione dell’avvocato, ascrivere l’azione di Serrani a qualcosa di estraneo al sesso rende più credibile la parabola del buon padre di famiglia. Colui che, a sentire Libero, ora deve affrontare problemi nel suo nucleo familiare a causa della pubblicità che ha ricevuto il suo agito. Sia chiaro l’accento critico verso la diffusione e non verso l’agito in sé. 

Questa responsabilità mal indirizzata ha scatenato una grossa polemica nei confronti di Beccaglia la quale viene criticata e accusata per aver acquisito notorietà a seguito della violenza. Beccaglia ha ricevuto solidarietà, il suo nome, non grazie ai giornalisti del “Greta”, è diventato solido nelle menti di chi ha visto il video ed ora ha un nutrito numero di follower.

Beccaglia viene accusata di aver cercato questa fama. L’attenzione che sta ricevendo è sempre funzionale al sistema della cancellazione della violenza, se questa è visibile allora bisogna usarla come mezzo di intrattenimento, il che non equivale necessariamente a riconoscerla. Il pubblico, inoltre, non le perdona l’attenzione, il vestiario o il fatto di non aver reagito con disperazione. 

Sì, i difensori del povero Micheletti e del povero Serrani hanno ragione a parlare di gogna mediatica. Peccato che come sempre stiano sbagliando i soggetti. Subire una violenza sessuale in diretta mentre si sta facendo il proprio lavoro ed essere nota al pubblico principalmente per questo non è un premio, venire accusata e valutata per via di questa fama mentre al violento viene concessa un’intervista imbevuta di sessismo benevolo, non è una coccarda al merito. È sempre e solo violenza. 

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