Il 25 novembre è una giornata di profondo dolore e angoscia; da sempre occasione di sorellanza, compassione e lutto. Negli ultimi anni, però, lo sconforto è accompagnato da un’altra sensazione opprimente: la solitudine, una solitudine in realtà molto rumorosa.
Questo ossimoro è legato all’utilizzo spasmodico che viene fatto dei social network e dei media tradizionali durante la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Il femminismo, infatti, così come tutte le manifestazioni di solidarietà nei confronti delle minoranze è generalmente accompagnato da un silenzio ovattato in sottofondo. Sono lotte solitarie, portate avanti per rabbia e desiderio di giustizia. È raro che persone esterne si trovino a combattere fianco a fianco con la minoranza discriminata, nonostante sia questa la chiave del successo di molte battaglie sociali. La voce più potente, si sa, è proprio quella dei più forti.
Il 25 novembre, però, la situazione si ribalta in modo molto simile a quello che succede, ad esempio, durante il mese del pride. Il solito silenzio di giornalisti, influencer, personaggi dello spettacolo e anche di gente comune viene sostituito da un intenso traffico di informazioni e contenuti. Post di cordoglio per le vittime della violenza di genere, talk show dedicati all’ingiustizia sessista (in cui, comunque vengono solitamente inviati solo uomini), iniziative di mercato volte a sostegno della causa etc.
Tutto questo sarebbe incredibilmente positivo se fosse fondato su un interesse concreto. In realtà, si tratta di una bolla d’illusione data dal pietismo e dalla necessità di essere sempre rilevanti e al passo con l’interesse pubblico. Una volta usciti dalla triste parentesi del 25 novembre, infatti, il silenzio tornerà a farsi sentire. Le pubblicità smetteranno di mostrare il numero antiviolenza, le persone sui social continueranno a esprimere la loro stima nei confronti di figure come Cristiano Ronaldo, accusato di violenze sessuali, e per strada proseguiranno i fischi e le molestie sotto gli occhi silenti di tuttə.
Jessa Crispin, nel suo saggio “Why I Am Not a Feminist: A Feminist Manifesto”, critica e condanna proprio questa sete di attenzioni da parte di esterni al movimento e il desiderio di rendere il femminismo un fenomeno pop. Il problema non sta nella condivisione di massa di contenuti a sostegno delle vittime di violenza e discriminazioni o in favore di leggi, usi e costumi che tutelino gli oppressi; come sottolineato prima, più vi è eco, più ci sono possibilità che le battaglie vengano vinte. Si tratta più che altro del pericolo di banalizzare gli argomenti per renderli più accessibili e facilmente fruibili. Da qui a portare avanti un femminismo meramente di facciata, il passo è breve. La realtà è che un movimento superficiale non cambierà nulla e non aiuterà nessuno, soprattutto se l’interesse dato alla causa si limita alla ricondivisione di un post all’anno.

Le accuse di Jessa Crispin non sono infondate e non mancano di certo il bersaglio. È sotto gli occhi di tuttə come alcune figure si approprino dell’ideologia femminista con l’intenzione di far parlare di sé muovendosi a paladinə di una battaglia che non appartiene a loro. Basti pensare a Freeda che tratta temi come l’oppressione delle donne afghane durante la dittatura talebana con una banalità e superficialità disarmante, pubblicando un secondo dopo un post sull’oroscopo e la lingerie di tendenza. Esempi come questo non possono essere rappresentanti della quarta ondata femminista.
Trovare una soluzione alla banalizzazione del femminismo e dei diritti umani non è facile, soprattutto a causa della società veloce e poco attenta nella quale ci troviamo. È importante, comunque, prestare attenzione agli atteggiamenti altrui in ogni circostanza per poterne pesare l’autenticità; perché non è vero sostegno se dietro c’è convenienza personale e non è vero supporto se è saltuario e opportunista.