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Il lavoro di cura delle donne: una risorsa a costo zero

Oltre il divario salariale di genere

La disparità salariale di genere in Italia è stata e continua ad essere una realtà inaccettabile. I numeri non mentono. Non solo il divario complessivo risulta essere del 43,7%. Come se non bastasse, nel 2020 le donne sono state tra le persone più colpite dalla pandemia dal punto di vista economico. Infatti, secondo quanto riportato da Eurostat e considerando una media Ue del 67,7% sull’occupazione femminile, l’Italia si piazza tra gli ultimi paesi europei con il 49%, un divario notevole che aggrava l’ ingiusta esistenza del cosiddetto gender pay gap.


Tuttavia, anche se un giorno arrivassimo ad una parità assoluta in merito alla retribuzione, la disuguaglianza tra i sessi continuerebbe imperterrita a sopravvivere. Ciò accade perché, allo stato attuale, la società patriarcale nella quale viviamo continua ad imporre al sesso maschile da un lato, e al sesso femminile dall’altro, delle scale di valori differenti ed opposte.

Al primo viene insegnato di porre prima il lavoro e poi la famiglia a causa dello stereotipo secondo il quale gli uomini contribuiscano al benessere familiare dedicando la maggior parte del proprio tempo al lavoro. Dunque, attraverso un contributo di tipo economico, da cui essi traggono vantaggi e soddisfazioni anche per se stessi. Mentre al secondo viene inculcata come priorità la famiglia e solo in seguito il lavoro, per via della rappresentazione sociale, culturale e mediatica attribuita da sempre alle donne. Soprattutto nel momento in cui hanno una figlia o un figlio, esse assumono la figura di moglie e madre nonché di principale responsabile della cura della famiglia e della casa. Dunque, un contributo totale, diretto più verso i propri affetti che per esse stesse.

Facendo leva su quest’ultimo concetto, nella stragrande maggioranza delle famiglie tradizionali eterogenitoriali, le madri devono farsi interamente carico della gestione della casa, soprattutto a livello mentale, e i padri si limitano ad eseguire le istruzioni delle madri. L’elemento del quale stiamo parlando, e alla quale la nostra società non ha prestato la benché minima attenzione, quantomeno per andare anche solo a ridurne le conseguenze, viene chiamato “lavoro di cura”.

Un lavoro invisibile e non retribuito

Si tratta di pratiche di lavoro domestico non retribuite svolte a favore di soggetti della propria famiglia non autosufficienti come bambini, anziani e disabili. A livello mondiale, sono le donne ad occuparsi del 75% di tale lavoro di cura non retribuito. Nello specifico, in Italia stiamo parlando del 61% .

Effettivamente, possiamo dire che uomini e donne single dedichino alle faccende domestiche quasi la medesima quantità di tempo, ma quando una coppia eterosessuale inizia a convivere, il carico di lavoro domestico per le donne aumenta mentre per gli uomini diminuisce indipendentemente dalla professione svolta da essə e da quanto quest’ultima possa essere impegnativa. Ciò avviene in quanto molteplici stereotipi di genere, normalizzati dal sistema, vengono introiettati sin dall’infanzia, ad esempio, alle bambine vengono donati la bambola e il mini-aspirapolvere; ai bambini la macchinina e le costruzioni, esattamente come la scala di valori di cui si è parlato precedentemente.

Nonostante nel corso dell’ultimo decennio ci siano stati progressi sociali e culturali purtroppo non ci sono stati cambiamenti permanenti ed onnicomprensivi tali da incidere sulla distribuzione dei compiti famigliari o sull’approccio culturale ai lavori di genere. Di conseguenza, il lavoro di cura rimane per la stragrande maggioranza di responsabilità femminile, non importando quanto sia la portata del suo carico a livello mentale, fisico e di tempo.

Passando poi ad una visione socioeconomica della questione, sebbene l’ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro sia già avvenuto a partire dallo scorso secolo, la partecipazione di esse a tale mercato è ancora bassa e viene fortemente e principalmente ostacolata proprio dalle mansioni domestiche e le responsabilità di accudimento che svolgono in casa. Pertanto, non sorprende il fatto che le donne siano considerate la forza lavoro più flessibile, meno pagata, sotto-inquadrata e più facilmente licenziabile.

Tra l’altro, molto più spesso di quanto si pensi, per conciliare nel migliore dei modi il lavoro retribuito e non retribuito, le donne finiscono per accontentarsi di mansioni al di sotto delle loro capacità e dei loro studi solo in quanto queste garantiscono la flessibilità di cui hanno bisogno, non lo stipendio che realmente meritano. Alcuni la chiamano “scelta”, tuttavia, quando non ci sono altre opzioni realistiche, la cosiddetta “scelta” risulta essere l’unica via possibile. Senza contare che a causa della disparità salariale di genere, in una coppia eterosessuale è più conveniente che sia la donna a limitare il proprio orario di lavoro, proprio perché guadagna meno.

Di tutto ciò, dunque, ne risentono il salario e l’occupazione femminile, e come se non bastasse, anche il sistema pensionistico statale che non tiene conto di tali minori guadagni che una donna accumula nel corso della sua vita lavorativa.

Il problema è che per esporre la questione dinanzi le istituzioni, in maniera molto più incisiva tale da rendere altrettanto evidente la soluzione in merito, servirebbe una raccolta di dati relativi ai servizi domestici resi gratuitamente. Dunque, quantificare l’apporto non retribuito delle donne e aggiungerlo al Pil del paese. Tutti elementi che ancora non abbiamo. In definitiva, dato l’onnipresente capitalismo, una delle soluzioni più adeguate da applicare, affinché ci siano dei riscontri positivi a livello socioeconomico e vengano ridotte così le responsabilità di accudimento delle donne, sarebbe quello di investire molto di più su infrastrutture sociali adeguate, cioè su quei servizi pubblici che ci permettono di soddisfare interessi e bisogni collettivi, ovvero nidi e asili pubblici, scuole a tempo pieno e strutture per anziani e disabili. Tutte strutture già esistenti, ma non sufficientemente adatte a risolvere il problema.

Il risultato auspicato, attraverso questo maggior investimento, è quello non solo di garantire all’economia statale un rendimento a lungo termine, poiché la popolazione sarebbe meglio assistita, ma anche quello di incrementare il tasso di occupazione femminile giacché le donne avrebbero maggior tempo libero a disposizione. Quest’ultimo andrebbe a sua volta a beneficio dell’intera società poiché diminuirebbe la povertà e aumenterebbero i redditi familiari. Tuttavia, ciò non avviene in quanto le politiche sociali non sono considerate allo stesso livello delle politiche economiche.

Oltretutto, il capitalismo senza la presenza del lavoro di cura gratuito delle donne avrebbe difficoltà a mantenersi, poiché, in tempi di crisi, quando i governi decidono di attuare un taglio alle spese, tale taglio è destinato proprio a quei servizi pubblici. Ma il consumo di questi ultimi non si annulla proprio per niente, poiché vengono delegati alle donne che vanno a rimediare così alla falla di un sistema di welfare carente.


In conclusione, seppur ci siano stati negli ultimi tempi cambiamenti socioculturali di genere, la loro
applicazione è, purtroppo, ancora parecchio lenta; perciò, è essenziale rivalutare con un occhio
critico le politiche di austerity e ripensare alla spesa sociale come a un investimento per il futuro.

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