Le posizioni nel dibattito attuale e la scelta dei padri costituenti
Una questione delicata su cui è aperto il dibattito è quello relativo alla presenza della parola «razza» nei testi legislativi, a cominciare dalla Costituzione. Questo tema è stato sottoposto all’attenzione pubblica da Gianmarco Biondi e Olga Rickards nell’ottobre 2014, i quali hanno chiesto al presidente della Repubblica e ai presidenti di Camera e Senato di rimuovere la parola «razza» dall’articolo 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali
Articolo 3
Un’opinione contraria è invece quella del linguista italiano Federico Faloppa, secondo il quale la rimozione della parola «razza» sarebbe inutile oltre che controproducente. Questa posizione viene motivata affermando che, per un cambiamento dall’alto come questo, è prima necessario capire se sia diffuso tra gli italiani l’uso della parola «razza». In effetti, proprio il fatto che ci si sforza di ribadire ancora oggi che le «razze» umane non esistono è indicativo: nel senso comune è ancora presente il concetto di «razza» e le sue traduzioni verbali.
Alla fine della Seconda guerra mondiale «razza» era un termine usato frequentemente. Esso era presente ovunque, nei dizionari, nei libri, nei giornali e dunque «necessariamente di razza doveva parlare la Carta costituzionale se voleva rispondere agli orrori del razzismo nazista e fascista; se voleva annullare le tassonomie razziste; se voleva, soprattutto, essere compresa dalle persone cui si rivolgeva»[1]. Per questo motivo, la prima bozza della Costituzione (1947) conteneva la parola «razza».
Tuttavia, già negli anni ’40 vi erano buone ragioni per sostenere che le varietà umane appartengono alla stessa specie e che hanno la stessa remota ascendenza. Ad oggi, la decostruzione della teoria delle «razze» è avvenuta con successo su più fronti. Gli studi genetici, in prima linea, hanno dato il colpo finale all’idea che gli esseri umani possano essere divisi in gruppi sulla base delle caratteristiche biologiche comuni. Dunque, questa sembra una buona ragione per ritenere che ad essere anacronistico è piuttosto l’uso del termine «razza» nel ventunesimo secolo.
Tra scienza e moralità
Nell’articolo 3 della Costituzione, il termine «razza» viene riferito alle persone e ciò è inammissibile oltre che mendoso, sia alla luce dei terribili eventi storici, sia sulla base della consapevolezza che si tratta di un errore scientifico frutto di una manipolazione politica che è stata perpetrata con cura nel secolo scorso. In questa sede si sostiene che non è corretto il suo utilizzo, sia dal punto di vista pratico che da quello morale. Sul piano scientifico, è un errore parlare di «razze» umane e sarebbe più utile ricontestualizzare il termine alla luce del progresso delle nostre conoscenze. Inoltre, il fatto che esso veicoli un concetto ancora diffuso nel senso comune, non è una ragione sufficiente per legittimare il fatto che si sta riproponendo la stessa visione del mondo razzializzata, quella che ha preparato il terreno allo sterminio.
Un altro motivo valido a supporto di questa tesi è che, al di là della consapevolezza offertaci dalla scienza, «razza» non è una parola neutra; non lo era neanche durante i lavori della Carta, ma da allora sono passati alcuni decenni e dobbiamo rivalutarne il peso. Oggi abbiamo una diversa consapevolezza rispetto a quella del del secolo scorso. Si tratta di un razzismo che può apparire impercettibile, ma che lavora le coscienze in ogni ambiente. È urgente eliminare ogni ambiguità, soprattutto in sede legislativa: le «razze» umane non esistono e la parola «razza» è pericolosa.
Alberto Burgio, filosofo e politico italiano, ha sostenuto che il razzismo è un elemento fondativo dell’ordine e del discorso. Questo fenomeno non si comprenderà se non si esce da questo equivoco, frutto di una manipolazione del linguaggio che produce una prospettiva minimalista e riduzionista. Usare la parola «razza» e l’aggettivo «razziale»[2], non meno pericoloso, ha come effetto immediato il ribadire l’esistenza delle «razze». Invece di individuare le dinamiche razziste e di evitarle a nostra volta, spesso incorriamo inconsapevolmente in questi errori e ci facciamo portatori di queste manipolazioni con effetti devastanti.[3]
Alcuni Paesi, quali l’Austria, la Francia, la Svezia, la Finlandia e da ultima la Germania, hanno tolto il lemma dalle loro Costituzioni; in altri paesi non è mai stato menzionato; mentre nella nostra Nazione esso è ancora presente. Il linguaggio è un terreno delicatissimo e fin quando non sarà ripulito dalle scorie non sarà chiaro che le «razze» non esistono: fin quando se ne parlerà sarà come se le «razze» esistessero e questo è il primo ostacolo ad una critica efficace al razzismo.
Burgio sostiene, in conclusione, che la «razza» esiste in quanto esiste il discorso razziale. Si comincia con una parola e si scopre che ciò determina tutta una prospettiva e in ultima istanza una cultura, che sono in definitiva i motori concreti della vicenda storica. Il linguaggio è un segmento determinante della nostra pratica sociale da cittadini responsabili e in quanto tale non è relegabile all’accademismo.[4]
[1] Marco Aime, Contro il razzismo: quattro ragionamenti, cit., p. 70.
[2] La struttura del lemma dell’aggettivo ‘’razziale’’ suggerisce l’esistenza delle razze. La desinenza latina –alis, ha la funzione di affermare l’esistenza dell’ente a cui il termine si riferisce, come ‘’spaziale’’ e ‘’locale’’.
[3] Queste informazioni sono state reperite dal seminario tenuto da Alberto Burgio durante il corso di Filosofia del diritto (set. – ott. 2020) di Marina Lalatta Costerbosa.
[4] Ibidem.