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La cancel culture esiste davvero?

Ultimamente la cultura della cancellazione viene invocata come difesa contro ogni accusa. Dalla censura verbale alle azioni di richiamo pubbliche e mass mediatiche, la  minaccia della cultura della cancellazione fornisce una protezione neutra e sentita che attinge alla tutela della libertà di parola. In Italia il richiamo alla cultura della cancellazione si unisce alle denunce contro il politicamente corretto. L’esito dell’uso di questi termini come difesa assoluta sta confondendo il loro significato e il loro valore. I confini tra cancellazione e responsabilizzazione vengono sfumati e il dibattito diventa contrasto. Il che è funzionale all’azione di chi si nasconde dietro la libertà di parola.

Innanzi tutto sarebbe opportuno definire la cultura della cancellazione, e Wikipedia, come sempre, ci offre una semplificazione concettuale sufficiente:  cancel culture indica una forma moderna di ostracismo, espulsione sociale, nella quale qualcuno diviene oggetto di indignate proteste e di conseguenza estromesso da cerchie sociali o professionali. La cultura della cancellazione, quindi, spesso viene invocata in maniera erronea, confondendola con la damnatio memorie e ascrivendovi qualsiasi azione di protesta.

La dannatio memorie è il termine a cui realmente si riferisce chi spesso lamenta l’esistenza di una cultura della cancellazione, ed indicava una procedura romana in cui veniva cancellata persino la memoria storica relativa all’esistenza dell’individuo ad essa condannato. 

Le azioni di protesta, quelle che vengono definite call-out, quindi pubblici richiami, hanno come scopo la responsabilizzazione delle persone che hanno detto, scritto o pubblicato qualcosa di oppressivo. Denunciare un atto, una parola o un sistema oppressivo non equivale a commettere un atto discriminatorio, si tratta infatti di evidenziare un’emanazione dell’iniquità sociale affinché si possa acquisire coscienza di tale modalità ed elaborare alternative non lesive della dignità di alcun*. 

La cultura della cancellazione riesce ad essere usata come difesa dagli stessi che possono esercitare potere proprio grazie alla cancellazione di altr3 individu3. La difesa strenua della tradizione, della morale, degli usi e costumi in quanto nuovo oggetto di un culto sacrale e nostalgico negano la presenza sociale di tutte le istanze non rappresentate dalla tradizione, dalla struttura sociale così come è narrata e dal linguaggio. In questa ostentata e performativa difesa vi è un effettivo atto di cancellazione, di negazione di espulsione

Il richiamo alla cancel culture, permette quindi di riflettere azioni invisibilizzanti su chi reclama legittima visibilità sociale. In questo modo, sfruttando la libertà di parola e asservendola ad uno scopo oppressivo, si riesce a negare il diritto e la libertà di espressione a chi già è oppresso, mantenendo intatta la distribuzione di potere. 

Come anticipato, la cultura della cancellazione viene accomunata al politicamente corretto presentato in un’accezione completamente negativa. Politicamente corretto, ancora una volta alla portata di una ricerca su Wikipedia:

designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto formale, soprattutto nel rifuggire l’offesa verso determinate categorie di persone.

Secondo molti critici il politicamente corretto è solamente una forma di conformismo, di facciata, legato a doppio filo all’immagine del pensiero unico. Di fatto il politicamente corretto non ha una risultanza prettamente negativa, ma è ormai considerato una forma di inganno linguistico e codardia politica. Motivo per cui è, a sua volta, fatto aderire al pensiero unico, descritto spesso come dittatura, una sorta di modello ideologico totalmente omogeneo ed imposto dall’alto. Questa definizione viene presentata in maniera molto più romanzata come una poetessa di conformismo da parte delle alte sfere che perseguitano liberi pensatori e paladini della libertà di pensiero. 

Analizzati vari elementi con cui viene arricchita la cultura della cancellazione è possibile comprendere quanto questa sia in realtà un’emanazione di sistema che non origina da chi protesta per la tutela umanitaria, quanto più da chi difende l’abuso umantiario. 

L’appiattimento semantico dei termini, l’uso degli stessi come slogan semplificati ed emotivamente carichi piuttosto che presentare argomentazioni valide combacia con la linea di azione demagogica populista orientata alla conquista della ragione mediatica più che di quella reale.

È altresì vero che questo tipo di narrativa piatta e indissolubilmente legata ad uno sfrenato personalismo viene talvolta adottata anche da chi sembra portare avanti questioni di diritto più che di oppressione. Il che è presto spiegato dalle proporzioni del sistema e della difficoltà di sfuggire ai suoi schemi comunicativi e descrittivi.

Se usare le parole fosse facile, tutta l’indagine letteraria non avrebbe mai avuto principio.

La difesa della libertà di parola portata avanti da chi ritiene essere un diritto usare alcuni termini o difendere alcune ideologie che risultano nella diretta, e storicamente provata, oppressione di gruppi marginalizzati è una negazione della libertà di parola. La libertà di parola serve a tutelare gli individui dalle oppressioni sistemiche, principalmente statalizzate, come le dittature, le autocrazie e i totalitarismi. Non è infatti un caso che sia un prodotto del 900. Eppure la sua estensione viene spesso sviata e contaminata. Non è libertà usare termini, parole e concetti discriminatori ma diretta negazione della libertà di esistenza della persona da essi colpita. La libertà di parola serve per dire “io non sono libero” ed evitare la persecuzione. La libertà di parola non è certo un artifizio umanitario per rifuggire la responsabilità, ma per attivarla. L’inversione dei soggetti e dei significati impoverisce il dibattito e, soprattutto, il ragionamento individuale e collettivo. Tant’è che per molt3 oggi è difficile dire dove inizi la rivendicazione e dove inizi una presunta oppressione al contrario. La verità, è che queste sono solo giustificazioni con una blanda architettura retorica, solidificatasi nella ripetizione costante e martellante di parole sempre uguali e sempre più semplici. 

Pretendere una rappresentazione non discriminatoria non è oppressione al contrario. Perché all’oppressione non manca un diritto fondamentale nel riconoscere l’importanza di non usare un termine, mettere in atto determinati comportamenti o riproporre determinate dinamiche. Il suo paniere di diritti rimane invariato. Al contrario, nel reiterare l’azione continua a negare e ledere il diritto altrui. 

Quindi, la cultura della cancellazione, la dittatura del pensiero unico e del politicamente corretto sono da analizzarsi e considerarsi, in quanto ennesimo strumento oppressivo di chi è tanto socialmente avvantaggiato da poter ottenere un guadagno a dipingersi come vittima di qualcosa. Perché la differenza tra l’inventarsi vittima è l’esserlo risiede proprio nell’esternalità negative derivate da questa condizione. Nulle, per chi vuole continuare a reiterare meccanismi sociali distorti che gli conferiscono un vantaggio strutturale socialmente determinato. 

La cultura della cancellazione non è operata da chi protesta, quanto più da chi accusando le rivendicazioni di essere cancellazione le sta attivamente silenziando con il benestare del pubblico invitato. 

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