Nella regione del Karnataka, nel sud dell’India, alcune scuole hanno vietato alle studentesse di indossare l’Hijab, violando sia la loro libertà religiosa, sia il loro diritto all’autodeterminazione.
Il divieto, però, non è frutto di una politica regionale, ma di un disegno nazionale fomentato da Narendra Modi, il quattordicesimo primo ministro indiano, che ha trovato nella persecuzione delle persone indiane musulmane la causa leggittimatrice del suo potere.
L’India è uno stato multiconfessionale, in cui convivono più fedi religiose che spesso di sfiorano e si uniscono nel sincretismo religioso, come nel caso di buddismo e induismo. Eppure, vi è una religione, che India conta circa 204 milioni di fedeli, verso cui le istituzioni stesse indirizzano un odio fitto e violento, condizionato da disinformazione e notizie fasulle, una fede verso cui il primo ministro e il suo partito aizzano comportamenti discriminatori e persecutori, sfruttando le ferite storiche e un vittimismo religioso capace di mutare la percezione di vittime e oppressori al punto di tramutare i comuni cittadini in carnefici, una religione la cui persecuzione è diventata la giustificazione del potere stesso Modi : l’islam.
Hindu khatre mein hain, le persone indù sono in pericolo, è il motto distorto che anima il sentimento di intolleranza nazionale che penetra nella quotidianità e nell’esistenza dei cittadini spingendoli ad azioni sempre più cruente, dall’intolleranza alla violenza, nei confronti delle persone musulmane la cui presenza, come indicato dallo slogan, viene sfumata in significati di pericolo e minaccia per l’esistenza stessa delle persone indù e dell’induismo.
Modi, dal 2014, è riuscito a tramutare la consapevolezza collettiva delle difficoltà patite dall’India in una crociata religiosa, attribuendo alle persone musulmane i mali del paese, rendendo il loro essere cittadini indiani un drenaggio di risorse e una minaccia agli occhi dei cittadini induisti. Il BJP, il partito di Modi, ha deviato sull’odio religioso la rabbia dei cittadini, evitando quindi di essere ritenuti responsabili per i reali, e tangibili, punti di collasso nella gestione del paese quindi la povertà, la disoccupazione, la distribuzione sempre più accentrata del benessere economico e i meccanismi di adattamento alla pandemia.
La politica di Modi si qualifica come etnonazionalismo di destra, un percorso di esaltazione di un gruppo etnico-religioso, quello Indù, atto a mantener il potere e, anzi, a legittimarlo religiosamente. Essendo l’India la più grande democrazia al mondo, per stabilizzare gli esiti elettorali è necessario un ampio e solido, consenso, e la presenza di 996 milioni di fedeli induisti è un bacino elettorale sufficiente per mantenere il potere nel lungo periodo. Modi, ha riaperto una ferita passata, ripercorrendo le atrocità della Partition tra India e Pakistan che ha visto, da entrambe le parti, una manifestazione violenza dell’ostilità tra i due gruppi religiosi, e l’ha ricollocata nel suo percorso, offrendo una percezione di vulnerabilità ai fedeli induisti e attribuendo una colpa a quelli musulmani. Il risultato è sì una solidità elettorale e una fede politica religiosamente determinata, una delle più difficili da scardinare, a cui conseguono direttamente violenze, discriminazioni di fatto e de jure.
Il divieto di indossare l’Hijab è l’ennesimo colpo assestato direttamente alla comunità musulmana indiana, e, se si considera quanto in India la libertà religiosa e la sua manifestazione siano presenti in ogni angolo di strada, appare ancor di più nelle sue velleità persecutorie mirate e politicizzate. Dalle leggi alle violenze incitate ai raduni politici, le persone musulmane in India stanno vivendo una violenta persecuzione collettiva, la peggiore degli ultimi 30 anni.
Nella citta di Gurgaon, alle persone musulmane è stato imposto il divieto di costruire moschee e pregare in luoghi pubblici e negli spazi aperti in quanto pratica offensiva, rendendo di fatto ma non de jure illegale per una persona musulmana pregare al di fuori dell’ambiente domestico.
Qualche mese fa lo scandalo dell’applicazione Sulli Deals era passato quasi inosservato dai media occidentali, sebbene l’ONU avesse formalmente parlato di una pratica di incitamento all’odio. L’applicazione, infatti, era basata sull’uso di immagini, nomi e cognomi di 80 donne musulmane (sulli è uno slur usato dalle persone islamofobe indiane) messe in vendita senza il loro consenso, il creatore, poi arrestato, era un giovane integralista induista.
Le intenzioni di Modi non lasciano spazio a dubbi, alle persone musulmane è richiesto di mostrare, apertamente e in maniera incontrovertibile, di essere indiane pena l’esser resi apolidi. Il fatto stesso che Modi ponga in essere l’idea che esista un’indianità definisce la sua opinabilità e attribuibilità sulla base di categorie e codici che possono essere elaborati in maniera arbitraria e unidirezionale. In questo caso, infatti, l’idea di un’identità indiana viene essenzialmente posta in contrapposizione alla religione musulmana, sebbene l’essere indiani non abbia nulla a che fare con la religione, ma sia una questione di cittadinanza. Ponendo l’identità politica e legale sullo stesso piano di quella religiosa, Modi sta fomentando l’intolleranza religiosa esaltando la comunità induista e discriminando quella musulmana.
Nel 2019 il BJP ha varato una proposta di legge sulla cittadinanza che consentiva a alle persone induiste, ebree, sikh, jainiste, cristiane, buddiste e parsi che erano giunti da Bangladesh, Pakistan e dall’Afghanistan prima del 2015 di essere naturalizzate indiane, grandi escluse dalla legge erano le persone musulmane.
Le azioni di Modi cercano di far convergere politiche e intolleranza dal basso in una persecuzione fattiva che sembra avere come scopo l’eliminazione delle persone musulmane dall’India, un geonocidio di stato fatto passare sotto silenzio in quanto colpisce uno dei gruppi religiosi attualmente più perseguitati al mondo. Basti pensare ai campi di detenzione degli Uiguri nello Xinjiang, sfruttati per le coltivazioni di cotone – da cui attingono, tra gli altri, le produzioni di Muji-, o alla comunità Rohingya perseguitata in Birmania, o ancora ai Palestinesi e all’intolleranza religiosa, spesso istituzionalizzata, delle persone musulmane in Europa.