Le mie esperienze urbane sono determinate dalla mia identità̀ di genere. Il mio essere donna determina il modo in cui mi muovo per la città, il modo in cui vivo la mia vita giorno dopo giorno e le scelte a mia disposizione.
Così Leslie Kern, saggista, professoressa di Geografia e Ambiente e autrice de La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini da cui è tratta la citazione, descrive il binomio donne-città. E lo fa sgretolando l’assunto che pianificazione urbana e discriminazione di genere viaggino su due linee senza possibilità di intersezione, ma rimettendo, anzi, al centro della costruzione dei nostri spazi cittadini la necessità di politiche sociali e culturali inclusive. È infatti di progettazione urbana inclusiva e femminista che stiamo parlando.
Le città, oltre che agglomerati di edifici e spazi pubblici, sono specchio nitido della società, rappresentazione lampante del substrato culturale e politico che le governa. Gentrificazione e disuguaglianze economiche creano quartieri borghesi centrali e quartieri popolari che dominano invece le periferie. Il razzismo si traduce in segregazione, ghettizzazione. Il capitalismo separa la città in zone di produzione i cui risuonano i mantra “produrre e consumare” mentre il patriarcato delimita gli spazi dell’esistenza e indica a quali luoghi si appartiene (casa, vicinato, luoghi di cura familiare quelli prediletti per le donne). Inoltre, se osserviamo attentamente, possiamo notare come le nostre città siano create a misura di uomo. E non un uomo qualsiasi, ma l’uomo etero cisgender bianco medio-borghese. È questo soggetto che, più o meno consciamente, compie scelte basandosi sull’unico campione che conosce, sé stesso (spesso infatti a mancare sono anche i dati di genere).
«Dalla politica economica urbana alla progettazione degli alloggi, dall’inserimento scolastico ai posti a sedere sugli autobus, dalla sorveglianza alla pulizia delle strade, senza sapere nulla, né tanto meno preoccuparsi, di come queste decisioni influenzino la vita delle donne. La città è stata istituita per sostenere e facilitare i ruoli di genere tradizionali, e le esperienze degli uomini sono la “norma”»
spiega Kern.
Ecco allora che alle donne – come alla comunità LGBTQ+ e alle minoranze – viene negato il diritto alla città. Legato a doppio nodo al concetto di libertà, il diritto alla città fonda le sue radici nel diritto alla partecipazione cittadina, nel diritto alla fruizione degli spazi e dei servizi, nel diritto alla socializzazione, all’occupazione dello spazio e nel diritto a un ambiente urbano sicuro e non discriminante. Ma la realtà è ben diversa e le donne si ritrovano tutti i giorni a dover fare i conti con ordinari ostacoli che rendono complicata la relazione con la città: carenza di toilette pubbliche sicure, progettazione di parcheggi al coperto o fermate dei mezzi pubblici che poco proteggono dal rischio di aggressioni, carenza di luoghi per allattare o cambiare i figli funzionali, servizi di prossimità non sufficienti, realtà abitative discriminanti, politiche di security anziché di sicurezza sociale e via dicendo.
Mobilità, lavoro di cura e violenza di genere
A interferire nel già complicato rapporto tra donne e città non vi è però solamente l’organizzazione degli spazi ma anche quella dei servizi. Servizi, ad esempio, come i mezzi pubblici. Fondamentale in questo ambito è soprattutto mettere a fuoco le differenze tra mobilità maschile e femminile e come esse, se non considerate in sede di progettazione urbana, finiscano per essere veicolo di disparità. In primo luogo vi è il ruolo sociale assegnato al mezzo di trasporto e al tragitto: l’auto è tendenzialmente a disposizione degli uomini, coloro ai quali è socialmente riservato il compito di raggiunge il centro città, il luogo in cui si concentra il lavoro, mentre le donne, più facilmente associate al ruolo di cura familiare, hanno più possibilità di vedersi confinate negli spazi periferici e assegnate all’uso dei mezzi pubblici. Spostamenti, quelli delle donne, che nascondono poi un’altra marcata differenza. Il tragitto maschile è solitamente lineare: casa/periferia-centro/lavoro e viceversa. Quello delle donne no. Il loro si identifica nel fenomeno del trip-chaining, ovvero “spostamento a tappe”: porta i bambini a scuola, raggiungi il luogo di lavoro, vai a riprendere i bambini, accompagnali alle attività ricreative, raggiungi i parenti anziani, sbriga le commissioni. Queste tappe sono comprese nel pacchetto di lavoro di cura familiare non retribuito riservato alle donne e sono svolte attraverso la mobilità pubblica che, come è noto, riserva insidie nei costi e nella traballante efficienza. Inoltre, il trip-chaining e il conseguente tempo necessario per gli spostamenti e spingono molto spesso le donne a non accettare determinati lavori perché́ troppo distanti dalla propria residenza, da quella dei familiari anziani o dalla scuola dei figli.
Anche la questione sicurezza sui mezzi pubblici, da sempre focolai di molestie e aggressioni, ha poi il suo ruolo nel fenomeno di rinuncia o abbandono lavorativo. Solo nel 2018 secondo l’Istat il 75% delle donne ha subito molestie di un qualche tipo negli spazi pubblici: talvolta verbali, altre volte con contatto fisico, altre ancora sotto forma di pedinamenti e in quasi un caso su tre (27,9%) la molestia si è verificata sui trasporti pubblici. Ecco quindi che si prospettano maggiori le probabilità che una donna non accetti ad esempio un corso di formazione serale o un lavoro notturno o un lavoro che la vede in ogni caso costretta a prendere i mezzi pubblici la sera per paura di subire molestie (sia una volta salita sul mezzo sia nell’attesa stessa alle fermate). Più in generale, la percezione di rischio che accompagna il binomio donne-mezzi di trasporto finisce per inficiare la relazione che questi soggetti hanno con lo spazio pubblico, con la possibilità di goderne, di poterne prendere parte. Dalla carenza di soluzioni effettive che aiutino le donne in caso di aggressioni sui mezzi, all’ubicazione delle fermate, come esse sono progettate, l’illuminazione che le accompagna e via dicendo, tutti elementi che calpestano il diritto alla città. Percezione di rischio che allarga però in generale le sue maglie a tutti gli aspetti dell’occupazione femminile dello spazio urbano.
Possibili soluzioni per una città inclusiva
Ripensare le città in un’ottica inclusiva è possibile, ma serve agire su diversi fronti. Imprescindibile quello dell’educazione. Il primo passo è infatti quello che contempla il cambiamento del paradigma culturale per cui alle donne viene insegnato fin da piccole che la città è pericolosa, che non è posto per loro, che lo spazio da occupare è piccolo, a margine e silenzioso. Step successivo è l’attuazione di politiche economico-sociali che non marginalizzino donne, minoranze e soggetti poveri in ogni ambito del vivere comune. E su questo Vienna ha fatto scuola. Con il suo complesso di edilizia popolare a misura di donna, il Frauen-Werk-Stadt I (“Città delle donne che lavorano I”, in totale ne sono stati completati tre) Vienna ha mostrato al mondo come un’urbanistica inclusiva è possibile. All’interno del complesso sono infatti presenti un asilo nido, un ambulatorio medico, una farmacia, negozi e a poca distanza si trova un supermercato. Le unità abitative sono interconnesse per rafforzare la socializzazione e affacciano sulle aree verdi per i più piccoli. I vani scale sono circondati da pareti trasparenti, gli spazi esterni sono ben illuminati e i parcheggi per le auto sono accessibili solo dagli appartamenti. Insomma, un esempio di pianificazione urbana attenta alle esigenze dei singoli.
Ulteriore passaggio verso un’urbanistica inclusiva è poi quello della raccolta di dati di genere sulle città e sui servizi che esse mettono a disposizione per le donne. A occuparsi di questo, in territorio milanese, sono ad esempio le architette Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro con il loro progetto Sex and the City. E poi ancora iniziative come la “Carta della città femminista” presentata dal collettivo Non una di meno che propone una lista di azioni concrete per ripensare le nostre città. Una città per le donne è dunque possibile. Una città che tiene bene a mente che “le strade sicure le fanno le donne che le attraversano”. Ma non solo. Una città sicura per la comunità LGBTQ+, per le minoranze lasciate ai margini, per i soggetti più fragili. Una città inclusiva per tutti.